Osip Mandel’štam

 

Hier stehe ich – ich kann nicht anders
.
Tutto in me si lacera
aperto da fiocchi di neve

di Claudio Orlandi

 

Che diavolo di nome, davvero poco lineare, al suono, al tatto
agli occhi. Non c’è verso che suoni dritto.
Lessi per caso le sue poesie ed è stato come bere un bicchiere d’acqua fresca (strano a dirsi..)
una folata di vento tiepido, un annuncio di primavera. M’è rimasto dentro come una pietra.

“ Un tonfo cauto e sordo – un frutto
del ramo s’è staccato via –
tra l’incessante melodia
del bosco silenzioso, muto...”

* * *

“Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e il proprio essere più di voi stessi”
E’ l’acmeista che nella Pietroburgo di inizio Novecento prende parola e volge lo sguardo al culmine (akme), al vertice per far uscire la poesia dalla “foresta dei simboli”, una lama di luce che illumina vividamente uno spazio esiguo. Un’architettura che prende forma, pietra su pietra.. ma a me sembrano foglie poggiate su una terra immacolata.
L’amica Anna infilava nella mano destra il guanto della sinistra e di li a poco la grande Guerra.

Nomi di città in fiore blandiscono l’orecchio
con un fasto che prima o poi decade.
Non la città di Roma sfida i secoli,
ma l’uomo ed il suo posto nel creato.

Di lui i re si vogliono appropriare,
giustificano guerre i sacerdoti;
come vile immondizia case e altari
senza di lui si votano allo spregio.

1914

Osip incontra la Rivoluzione come poeta pienamente formato ed è tra i primi a scrivere versi su temi civili. L’agire bolscevico non lo entusiasma, ma la Rivoluzione rappresenta per lui un avvenimento enorme. Non si piegherà ai temi della contingenza politica ed osserverà la realtà come dall’alto di un’acropoli auspicando un utopico ritorno al classicismo.
In piena guerra civile si sposta in continuazione peregrinando nel Sud dell’impero: Ucraina, Crimea, Caucaso e la sorte le farà conoscere la giovane pittrice Nadja Chazina che nel ’22 diverrà la sua fedele sposa.
Nello stesso anno la censura russa, dopo un primo rifiuto, lascia stampare la seconda raccolta di versi intitolata Tristia, ma la chiusura del regime nei confronti del poeta sarà presto totale.

Nel ’24 morto Lenin, gli succede Stalin.

I regimi non desiderano i poeti. Forze libere e fuori controllo sono inammissibili; intelligenze critiche e preparate sono pericolose come il calore per il ghiaccio, tutto potrebbe sciogliersi.
Il poeta sente su di se il peso dell’esilio in patria ed il materializzarsi di tristi presagi, viene invitato a non pubblicare più versi.
Il “secolo belva” mostra ferocemente i denti.
La macchina della censura tuttavia è ancora in rodaggio ed il divieto di pubblicazione, ristretto alle poesie e la stampa periodica, tollera l’uscita di alcune prose e saggi poetici. Una sorta di piccolo miracolo operato dall’amico e “protettore” Nikolaj Bucharin permette la pubblicazione di una raccolta antologica della sua lirica, ma il tempo cambia in fretta.
Nel ’29 l’accusa di plagio e la campagna denigratoria sulla stampa che ne segue segnano l’avvenuto mutamento. Lo stesso Bucharin aveva fiutato “l’aria di fogna” che girava nelle redazioni di regime. L’unica cosa da fare è allontanarsi dall’aria moscovita in attesa che nuove forze e nuovi venti puliscano la scena. Il poeta è invitato a partire in “missione artistica”. Quando la segretaria di Bucharin chiede a Mandel’stam dove avrebbe desiderato recarsi, la risposta è scontata quanto inquietante: l’Armenia.

“Osip, ma perché ancora il Sud, il Caucaso? Sai che non sarebbe vista di buon occhio questa scelta..”
“ Caro Nikolaj, loro vogliono il mio allontanamento, il mio silenzio. Lascerò parlare la terra.”

                Avrebbe dovuto scrivere della giovane repubblica sovietica, ma per Mandel’stam, poeta latino nel mondo dei Soviet, è il Mediterraneo la Terra Santa: “..di qui il suo continuo tornare a Roma e all’Italia nelle sue poesie. Nel suo Mediterraneo includeva la Crimea e la Transcaucasia... nonostante il suo grande amore per i viaggi, rifiutava recisamente di andare nell’Asia Centrale e nell’Estremo Oriente [come sarebbe piaciuto a Mosca]. Lo attraevano soltanto la Crimea e il Caucaso. I loro antichi legami – dell’Armenia in particolare – con la Grecia e con Roma gli sembravano garanzia di comunanza con la cultura mondiale, o meglio, europea.. l’Armenia come avamposto cristiano in Oriente.”
                In Armenia Mandel’stam non troverà solo le sue amate terre intrise d’epica classica, ma la forza e la passione per una nuova stagione di fioritura poetica.
E’ da cinque anni che la sua vena lirica è muta.

Guarda la fifa a cosa ci ha ridotto,
o mio compagno dalla grande bocca!

Guarda il tabacco nostro che si sbriciola,
Schiaccianoci, babbeo, caro amico!

Come uno storno fischiarsi la vita,
come torta di noci divorarla;

ma è un desiderio proibito...

Ecco, datata Ottobre 1930, la lirica che lo “risvegliò”, come disse egli stesso alla moglie che ne era dedicataria ( “Schiaccianoci” era il nomignolo domestico di Nadežda ).
                Fallito il tentativo di stabilirsi a Tiflis il poeta e l’inseparabile compagna tornano a Leningrado, ma nel gennaio del ’31 la commissione per gli alloggi del locale Comitato degli scrittori rifiuta di concedere loro una stanza in città. Vivranno a Mosca nella povertà di alloggi di fortuna e ospitalità di amici. Nel ’33 la prosa Viaggio in Armenia è pubblicata da “Zvezda”, ma uno strascico di attacchi polemici provocherà la destituzione del direttore della rivista.
La persecuzione rende la vita del poeta impossibile. Nessun editore accetta più una sua riga.

Compagna del Petrarca, del Tasso, dell’Ariosto:
lingua del tutto assurda, lingua dolce-salata;
splendide gemellanze di quei suoni in combutta...
Introdurrò una lama fra le valve dell’ostrica?

Non è solo un interesse intellettuale ciò che lega Mandel’stam alla lingua italiana. La sua, oltre ad una ricerca è un vero e proprio amore per i sapori infantili, le sfumature fonetiche della “più dadaistica delle lingue romanze”. La studierà profondamente per poter leggere la Commedia nell’idioma dantesco. E di nuovo in Crimea tra la primavera e l’estate del ’33 detta alla moglie Conversazione su Dante, la cui prima edizione apparirà in URSS solo nel 1967. Sarà uno degli ultimi lavori compiuti in libertà.

Il Congresso della neonata Unione degli scrittori sovietici ora proclama il realismo socialista unica dottrina estetica del regime chiudendo di fatto l’intera letteratura nelle maglie di un’organizzazione burocratico-censoria, il cui fine è quello di fare degli scrittori funzionari addetti alla produzione di un’arte erariale, disciplinata e servile.
Il 14 Aprile del ’30 Vladimir Majakovskij si toglie la vita con un colpo di pistola al cuore. Nel giro di due, tre anni i lager staliniani si riempiono di prigionieri politici, quasi altrettanti ne vengono uccisi nelle carceri o scompaiono senza lasciare traccia. E’ il terrore cieco di un violenta e sistematica automutilazione.
Mandel’stam reciterà in pubblico questi versi pensando all’uomo che incarnava tutto questo:

Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse
e dovunque ci sia spazio per una breve conversazione
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Le sue tozze dita sono grasse come vermi
e le sue parole sicure come fili a piombo.
Se la ridono i suoi baffi da scarafaggio
e i suoi gambali scoccano neri lampi.

Intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile
e si diletta dei servigi di mezzi uomini.
Chi fischietta, chi miagola, chi fa il piagnucolone
se soltanto lui ciarla o punta il dito.
Come ferri di cavallo egli forgia e appioppa un decreto dietro l’altro,
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
cuccagna ed un ampio torace di osseta.
(Novembre 1933)

Nella notte tra il 13 ed il 14 maggio 1934 Osip Mandel’stam è arrestato nel suo appartamento di Mosca, che ospitava in quel momento anche la Achmatova e condotto alla Lubjanka al termine di una perquisizione durata l’intera notte. Segue i suoi carcerieri portando con se soltanto una copia della Divina Commedia.
Il 27 maggio gli viene inflitta una condanna a tre anni di confino da scontare nella città di Cerdyn’, oltre mille chilometri a nord-est di Mosca. Obiettivo esplicito della sentenza è “isolarlo, ma tenerlo in vita”.
                La carcerazione lo sconvolge, soffre di allucinazioni uditive e dopo un attacco di miocardite grave si getta dalla finestra dell’ospedale dove è ricoverato. Bucharin e Pasternak tentano di sollevare il problema presso Stalin il quale aveva dato disposizioni affinché il caso Mandel’stam fosse “sistemato”.
Proprio Pasternak, secondo una versione della Achmatova si intrattenne telefonicamente con il “montanaro del Cremlino”. Allo scrittore Stalin chiese perché egli non avesse operato in difesa dell’amico poeta.
                “Se un mio amico fosse capitato in una disgrazia, io avrei fatto l’impossibile per salvarlo”. Pasternak rispose che se egli non si fosse mosso in tal senso, Stalin non avrebbe saputo nulla della faccenda.
                “Perché non si è rivolto a me o alle organizzazioni degli scrittori?
                “Le organizzazioni degli scrittori non si occupano più di queste cose dal 1927”
                “Ma si tratta di un suo amico, non è vero?”
Pasternak esitò, e Stalin dopo una breve pausa continuò la domanda:
                “Si tratta di un artista, di un artista non è vero?”
Pasternak rispose: “Questo non ha importanza”. Egli pensava che Stalin volesse verificare se era al corrente dei versi [di Mandel’stam contro Stalin] e con questo spiegava le proprie incerte risposte.
                “Perché parliamo sempre di Mandel’stam e Mandel’stam: è tanto tempo che volevo parlare con lei”
                “Di che cosa ?”
                “Della vita e della morte”
Stalin appese il ricevitore.


La pena viene commutata in tre anni di domicilio coatto che Mandel’stam decide di trascorrere a Voronež - nella Russia meridionale - dove gli è concesso di svolgere un’attività culturale in alcune istituzioni della regione.
                Nella primavera del ’35 vedono la luce le prime liriche dei futuri Quaderni di Voronež


* * *

C’è chi sostiene che dagli inferni del secolo scorso siano sorti alcuni dei capolavori più puri di tutta la letteratura contemporanea. Ed è proprio la purezza l’elemento che erompe dai lavori di Voronež.
Una luce perfetta pervade le parole e gli spazi, gli angoli delle lettere sono tenere culle baciate dagli elementi. La bellezza e lo stile si fondono armoniosamente, il ricordo nostalgico e il terrore
del presente danno vita ad autentiche visioni. Il paesaggio naturale è chiamato a testimoniare dell’umana tensione e l’anelito alla libertà si tramuta, al ritmo delle stagioni, ora in grandiose costruzioni ora in cripte in cui raccogliersi accanto alla grazia.
La lettura mi sconvolge, tutto in me si lacera, trafitto da un fiocco di neve…

  Devo vivere, anche se due volte morto,
e la città è mezza ammattita per l’acqua:
com’è bello, allegro, zigomi-grossi,
come fa piacere lo strato di grasso che arriva sul vomere,
com’è stesa la steppa nel rivangare di aprile
e il cielo, il cielo – il tuo, Buonarroti…

*

Guardavo, allontanandomi, un oriente di conifere:
verso una boa la Kama gonfia d’acqua fuggiva.

E vorrei staccar via la montagna e il suo fuoco,
ma resta si e no il tempo di salar quei boschi.

E all’istante mi vorrei stabilire, comprendimi,
negli Urali eterni, popolosi di gente;

e vorrei, di questa liscia superficie dissennata,
esser custode, sentinella in un pastrano a lunghe falde.

*

Togliendomi i mari, la corsa e il volo
E dando al piede l’appoggio di una terra coatta,
che cosa avete ottenuto? Bel calcolo:
non potevate amputarmi le labbra che si muovono.

*

 

Come un dono tardivo
sento l’inverno:
amo il suo slancio
dapprima incerto.

E’ bello e terrorizza
come l’inizio di cose terribili –
davanti a tutto il cerchio senz’alberi
anche il corvo si è intimidito.

Ma più forte di tutto
l’azzurro che sporge debolmente –
alle tempie il ghiaccio a semicerchio
dei ruscelli, che senza sonno mormorano…

 

                L’Achmatova, Pasternak e pochi altri sono nell’esiguo numero di scrittori che aiutano materialmente i coniugi Mandel’stam: “Né io né mia moglie abbiamo più la forza di andare avanti in questo orrore”, scrive Osip a Cukoskij.

                Lasciami andare, mollami, Voronež:
                mi puoi far cadere o scappare,
                sfuggire o restituirmi,
                Voronež ticchio, Voronež corvo, coltello…

L’amica Anna gli dedicherà anche dei versi:

Voronež

La città è coperta di ghiaccio.
Come sotto un vetro, alberi, muri, neve.
Procede sul cristallo timorosa,
così incerta è la corsa della slitta arabescata.
Sopra il San Pietro di Voronež corvi,
pioppi e volta di un cielo verdechiaro,
erosa ed appannata nel polline solare;
sui pendii di una terra possente, vincitrice
aleggia la battaglia di Kulikovo.
E, come coppe che si levino, i pioppi
Risuonano d’un tratto più sonori,
quasi bevessero alla nostra gioia
mille ospiti, in un banchetto nuziale.

Ma nella stanza del poeta in disgrazia
Vegliano a turno la paura e la Musa.
Ed una notte avanza
Che non conosce aurora.
(1936)


Tra il dicembre ’36 al febbraio ’37 vede la luce il secondo quaderno, quarantacinque testi in circa tre mesi, una stagione di straordinaria creatività ed assoluta forza:


Ancora non sei morto, ancora non sei solo,
finché con l’amica-mendicante
godi la grandiosità delle pianure,
buio, freddo e bufere.

Nell’opulenta povertà, nella potente miseria
devi vivere, calmo e confortato.
Sono benedetti i giorni e le notti
innocente la fatica dolcesonora.

Infelice colui che come la sua ombra
il latrato spaventa, il vento storce,
e misero colui che mezzo morto
alla sua ombra va elemosinando.

*

 

Da solo guardo dritto in faccia al gelo:
non va da nessuna parte, non vengo da nessun posto,
ed è sempre stirato, piegato senza grinze
il miracolo della pianura e respira.

In questa miseria strizza gli occhi il sole –
il suo strizzarli è calmo e confortato…
Boschi a dieci cifre – quasi come quelli…
E la neve scricchiola negli occhi, innocente come il pane.

*

Splende come argento femminile
che lottava con ossidi e additivi,
e tranquillo il lavoro inargenta
l’aratro di ferro e la voce del poeta.


                Mandel’stam, le cui condizioni di salute si vanno aggravando progressivamente compone la cosiddetta “ode a Stalin”, che secondo i suoi calcoli avrebbe potuto salvarlo dalla tragica fine cui si sente iniziato. Si sbaglia. L’unica sua via di salvezza rimane la poesia.. Anche l’amata Roma ritorna nei versi, presa nell’angosciante passo del declino:


Roma

Dove coi loro gracidii e i loro spruzzi
Non dormono più i ranocchi delle fontane,
e una volta svegliati, in lacrime,
con tutta la potenza dei loro gozzi e conchiglie
aspergono di acqua anfibia la città,
che ama dire sì ai forti –


antichità leggera, estiva, insolente,
con lo sguardo avido e il piede piatto,
come il ponte inviolato dell’angelo
a pianta piatta sull’acqua gialla –

azzurra, non plasmata, di cenere,
nell’escrescenza a timpano della case
la città, modellata in vicoli e spifferi
dalla rondine della cupola –
l’avete ridotta a un vivaio d’assassini,
voi, mercenari del sangue bruno,
italiche camicine nere,
feroci cuccioli di cesari morti…

Sono tutti orfani tuoi, Michelangelo,
coperti di pietra e vergogna,
la notte, umida di lacrime, e il giovane
innocente David dal piede leggero,
e il letto sul quale è sdraiato
immobile Mosè a cascata –
nel sonno ipnotico e in schiavitù
stanno zitte la libera potenza e la misura del leone.

E lento uomo, Roma ha innalzato
gradini di scale aggrinzite
verso la piazza dei fiumi di scale che scorrono –
perché come azioni risuonino i passi
e non per piaceri storpiati
come indolenti spugne marine.

Di nuovo hanno scavato le fosse del foro,
e aperto le porte a Erode
e pende pesante su Roma il mento
del dittatore-degenere.

* * *

                Nella seconda metà di maggio del ‘37, in condizioni di salute pessime, finito di scontare la pena lascia Voronež per Mosca. Le autorità di polizia gli impongono di lasciare la capitale e si stabilisce a Savëlovo, un minuscolo villaggio sulla riva destra del Volga, quindi a Kalinin. Compie con la moglie frequenti viaggi clandestini a Mosca e Leningrado con lo scopo di raccogliere qualche soldo, ma i suoi lavori e progetti non sono accettati. L’aiuto dei pochi amici non basta ad alleviare la condizione di estrema indigenza in cui versa la coppia. Fra il 3 e il 5 marzo 1938 torna per l’ultima volta a Leningrado e per l’ultima volta rivede l’Achmatova. Pochi giorni dopo è con Nadežda nella casa di cura di Samaticha a circa 150 chilometri a est di Mosca.
All’alba del 2 maggio il nuovo arresto.
Un atto veloce, senza perquisizione…i suoi testi i sui reati.
Dalla Lubjanka viene trasferito al carcere moscovita di Butyrki. Un serie di perquisizioni nei vari alloggi, un solo interrogatorio. La commissione medica che lo sottopone a visita psichiatrica lo dichiara “malato di mente” e “PASSIBILE DI INCRIMINAZIONE”. La sentenza gli infligge una condanna alla deportazione per “attività controrivoluzionaria”.

Il 12 ottobre, dopo un mese di viaggio, viene internato nel “campo di transito” di Vtoraja Recka nei pressi di Vladivostok. L’unica sua lettera dalla Siberia giunge a Mosca il 13 dicembre:
“..sono ridotto allo stremo…quasi irriconoscibile”

* * *

Kolyma

Il poeta moriva. Le mani grandi, gonfie dalla fame, con le dita bianche esangui e le unghie sporche e lunghe, erano distese sul petto nonostante il freddo. Prima le ficcava sotto la maglia, sulla carne, ma ora non c’era caldo neppure lì. […] A volte penetrando dolorosamente e quasi impercettibilmente nel cervello faceva la sua apparizione un’idea semplice, intensa: gli avevano rubato il pane che aveva posato sotto la testa. E la cosa era così terribile, bruciante, che era pronto a battersi, a cercare, a dimostrare. Ma ormai le forze non c’erano più e il pensiero del pane si faceva più debole…E subito si metteva a pensare ad altro.
Moriva. Ma la vita ritornava in lui, gli occhi si aprivano, spuntavano pensieri. I desideri soltanto non c’erano. Da tanto tempo era in un mondo dove spesso si dovevano richiamare gli uomini in vita: con la respirazione artificiale, con la canfora, con la caffeina. Il morto diventava vivo. Credeva nell’immortalità, nella vera immortalità dell’uomo. Spesso pensava che non c’era nessun motivo perché l’uomo non vivesse in eterno. La vecchiaia è solo una malattia curabile; e se non ci fosse stato questo tragico, incomprensibile equivoco, egli avrebbe potuto vivere in eterno. O fino a che non si fosse stancato. E non era stanco di vivere, lui. Anche ora, in questa baracca di transito, nella tranzitka, come la chiama affettuosamente la gente che ci vive. Era l’anticamera dell’orrore, ma in sé non era l’orrore. Anzi qui si era più liberi. Davanti c’era il campo, dietro la prigione. Era questo un mondo in cammino e il poeta lo capiva.
[…] D’un tratto gli venne voglia di mangiare, ma non aveva forze per muoversi: lentamente, a fatica ricordò di aver dato la minestra del giorno a un vicino, che il pentolino d’acqua bollente era stato il suo unico pasto il giorno prima. Eccetto il pane, s’intende. Ma già da molto gli avevano dato il pane. Quello del giorno prima glielo avevano rubato. C’era ancora qualcuno che aveva la forza di rubare.
                Così giacque, leggero, senza pensieri, finché non fece giorno. La luce elettrica si fece appena più gialla e su grandi vassoi di compensato portarono il pane, come lo portavano ogni giorno. Ma non si eccitava, non cercava con lo sguardo il cantuccio di pane, non piangeva se il cantuccio non gli toccava, non si cacciò in bocca con le mani tremanti il supplemento; il supplemento si scioglieva subito in bocca, le narici si dilatavano ed egli con tutto il suo essere, sentiva il sapore e l’odore del pane fresco di segale. No, ora niente lo eccitava. Ma quando gli misero in mano la sua razione giornaliera, la strinse con le sue mani esangui e premette il pane sulla bocca. Morse il pane con i denti di chi aveva lo scorbuto, le gengive sanguinavano, i denti tentennavano, ma lui non sentiva dolore. Con tutte le forze premette il pane sulla bocca, ce lo cacciò dentro, lo succhiellò, lo ruppe e lo rosicchiò…
                I vicini lo fermarono…
                -       Non mangiarlo tutto, meglio che lo mangi dopo..
Il poeta capì. Spalancò gli occhi, senza lasciarsi sfuggire dalle dita sporche e azzurrognole il pane macchiato di sangue.
                -       Quando dopo? – sillabò distintamente chiudendo gli occhi.
Verso le sei il poeta morì. Ma lo registrarono due giorni dopo; per due giornate i suoi vicini ingegnosi sarebbero riusciti a farsi dare, durante la distribuzione del pane, la razione del morto; con il morto che teneva alzato un braccio, come una marionetta.


(Hier stehe ich – ich kann nicht anders)


* * *

Osip Mandel’štam non potè pubblicare in vita le poesie composte fra il 1935 e il ’37 nell’esilio di Voronež. La moglie Nadežda le salvò nascondendole, imparandole a memoria, fino a alla fine degli anni Sessanta, quando cominciarono ad essere pubblicate.


Testi consultati:

Osip Mandel’štam, Cinquanta poesie, a cura di Remo Faccani, Einaudi, Torino 1998.
Osip Mandel’štam, Il rumore del tempo. Feodosia. Il francobollo egiziano. Einaudi 1970
Osip Mandel’štam, Viaggio in Armenia, a cura di Serena Vitale, Adelphi 1988
Osip Mandel’štam, Quaderni di Voronež, a cura di Maurizia Calusio, Mondadori 1995
Osip Mandel’štam, La quarta prosa, Editori Riuniti, Roma 1982
Nadežda Mandel’štam, L’epoca e i lupi, Serra e Riva Editori, Milano 1990
Anna Achmatova, La corsa del tempo, a cura di Michele Colucci, Einaudi 1992
Antologia della poesia russa, a cura di S. Garzonio e G. Carpi, La biblioteca di Repubblica 2004
Varlam Šalamov, Kolyma. Racconti dai lager staliniani, a cura di Piero Sinatti, Savelli1978

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dicembre 2005
Claudio Orlandi - claudiopane@hotmail.com