R E C E N S I O N I

 

 

 

“Venerdì” di Repubblica
 
Pane, talmente intenso e medioevale da sembrare persino lieve e postmoderno.
Parlano di Ligabue e Abu Graib, di Satie e di Buzzati.
Epico, folle, triste, visionario, inquietante:
un grande esordio....

Luca Valtorta - Venerdì di Repubblica, 25 Aprile 2008

 

XL  La Repubblica
 
"La poesia è una vertigine che fa male da morire"
 
Diciamolo subito: questo disco non è per tutti. Perché certi versi d'autore, come quelli di Léo Ferré (qui ripreso in una dolente versione italiana di Tu ne dis jamais rien), Luigi Tenco (Vedrai, vedrai) o Antonio Porta (Distanza amorosa), come quelli originali di Claudio Orlandi, autore e cantante di rara di potenza – ricorda Francesco Di Giacomo BMS – sono tutt'altro che rassicuranti. E anzi fanno male, male da morire, e per di più esigono sensibilità e passione genuine.
Pane, il quintetto romano scoperto da Giancarlo Onorato, suona rock da camera, minimalista, offre slancio drammaturgico al suo vocalist (Abu Graib) e momenti di tensione prog.

     Roba seria.      

Flavio Brighenti, XL La Repubblica, Maggio 2008

 

MOVIMENTIPROG
 
“Folgorante album per il progetto romano”
 
Bastava ascoltare quel timido dischetto d'esordio uscito qualche anno fa per capire la potenza, l'unicità, il ruolo imprescindibile che i Pane stanno conqistando nel panorama musicale italiano. Raramente un gruppo ha avuto la capacità di convincere così rapidamente, e tutte le intuizioni racchiuse in quel disco del 2003 esplodono e diventano perfette in questo primo lp "ufficiale". "Tutta la dolcezza ai vermi" migliora, anzi sublima, le caratteristiche musicali e artistiche della formazione romana, valorizzata oggi dalla produzione di Giancarlo Onorato e della Lilium.

Al centro di tutto la parola, la poesia: quello dei Pane è un originale e personalissimo folk d'autore che anche nei brani di Leo Ferrè e Luigi Tenco conserva la sua personalità e il suo felice impianto concettuale. Il gruppo si esprime in acustico, facendo uso anche di un flauto traverso che che nel precedente album aveva molti collegamenti anche con i Jethro Tull, e che ora invece è inserito in un contesto di maggior equilibrio (Vedi "Frana dolce" e "Casa turchina"). Benchè Claudio Orlandi sia autore di tutte le liriche, i Pane sono senza dubbio un gruppo: ogni musicista porta in campo le sue influenze (musica colta, jazz, prog) e la band predilige la registrazione in presa diretta, "nuda e cruda", per valorizzare l'importanza di un'esperienza immaginifica, dal potere simbolico e rivelatore.

Ciò che scrive e interpreta Orlandi ha il dolore e la forza della verità, e la veemenza, i cambi di registro, l'immedesimazione catturano subito l'attenzione: basta ascoltare "Abu Graib" (tra i momenti più alti del disco per espressività e forza descrittiva), la splendida "Testamento", la rarefatta "Voronez" per accorgersi subito della profondità, del "senso" che possiede questo progetto. Su testo di Antonio Porta, "Distanza amorosa" chiude l'album con una tensione palpabile, crescente.

"Bolla celeste", "Giovanni Drogo", l'ironica "Gallina": ascoltatele con attenzione, immergetevi nella parola che prende forma, svela e avvolge. Poesia, musica acustica, teatro, ballata e canzone, in un album privo di stanchezza, senza momenti vuoti, senza ridondanze e retorica: pur amalgamando perfettamente questi ingredienti, la ricetta dei Pane resta ancora di difficile definizione, impossibile da inquadrare. Ma proprio questo è il segreto della sua bellezza.

Donato Zoppo [www.movimentiprog.net]

 

ROLLING STONE
 
Ciò che questo disco lascia è più di quanto noi potremmo mai dare
 
Ognuno di noi, per scendere in profondità, lì dove non si tocca, ha bisogno di qualcosa di più alto a cui sostenersi, a cui fare riferimento. Così funzionano anche la canzoni dei Pane: dove la musica del combo romano naviga a filo d'acqua tra chitarre acustiche, pianoforti e arrangiamenti leggeri, più in basso, molto più in basso, si agita scura la voce di Claudio Orlandi.
Le sue parole e i sui versi scavano nelle ombre del giorno e per tenere lo sguardo dove lui ci indica non possiamo che aggrapparci alle note che passano sopra di noi. Così, canzone dopo canzone, i Pane ci illustrano, con questo Tutta a dolcezza ai vermi, 12 ritratti di vita che comprendono anche le cover di Tu non dici mai niente di Léo Ferré e Vedrai vedrai di Luigi Tenco. Nonostante il valore , l'opera prima dei Pane non è immune da vizi: Orlandi si lascia spesso trascinare dai ricami della sua voce invece di comandarla e la forma musicale risulta spesso ripetitiva, anche se ciò che questo disco lascia è più di quanto noi potremmo mai dare.

Giuseppe Fabris, Rolling Stone, Luglio 2008

 

METROMORFOSI
 
Ogni tanto è meglio prendersi una pausa dalle vorticose odissee nei concerti.
capitolini. Un sollievo se è per ascoltare un disco da assaporare in religioso.
silenzio. Tutta la dolcezza ai vermi dei romani Pane riporta infatti la parola al centro della musica, attraverso un originalissimo folk, che ripesca anche gioielli indimenticati di Leo Ferrè (Tu non dici mai niente) e Luigi Tenco (Vedrai vedrai), ma che mantiene tutta la sua forza espressiva con la voce e la personalità di Claudio Orlandi (autore di tutte le liriche). E così musica colta, jazz e progressive si amalgamano in un sound che è una carezza ed un fuoco al contempo. Per un attimo i vocalizzi sofferti di Abu Graib sembrano riportarci alle atmosfere dell’Alan Sorrenti lucente di Aria (per chi non lo conoscesse, un disco immaginifico). Le suggestioni letterarie di Giovanni Drogo (omaggio onirico a Dino Buzzati), le descrizioni che lasciano piccoli graffi di Bolla celeste e gli adynaton decadenti di Voronez sono i gioielli di un disco che pesa, senza essere pesante. E al centro, affiora la sublime Testamento dove parole e musica si fondono in una ballata capace di sterzare improvvisamente in profondità con la voce calda e ieratica di Orlandi, che sembra cadere dall’alto e comunque esserci da sempre. Significati nascosti e poi subito rivelati e nuovamente sottratti in un labirinto di emozioni, che crescono con tensioni
che picchiano sulle ossa e un’idea di poesia che assomiglia alle nuvole e ad una frana dolce (per citare il pezzo d’apertura). Si chiude con la sentita e pulsante Distanza amorosa su testo di Antonio Porta. Anche questo e molto di più è Tutta la dolcezza ai vermi, un disco che Metromorfosi consiglia fortemente per conoscere una delle realtà musicali più vive ed originali del panorama attuale. In altre parole, farsi immergere da un serie di sensazioni che per niente al mondo, per niente al mondo vanno trascurate.

Emanuele Kraushaar [www.metromorfosi.com]

 

NERDS ATTACK!
MUSICAROMA UNDERGROUND

Fantasmi del tempo

'Tutta La Dolcezza Ai Vermi' è nell’accezione più alta un album figlio della canzone d’autore. Dalla citazione di Lucrezio in apertura sino al pezzo che fa da incipit, i Pane miscelano con grazia la bellezza e la poesia, sussurrate dal timbro caldo di Claudio Orlandi. Gli arpeggi flautati, le aperture melodiche si dispiegano nell’arco dei dodici brani. Quando intonano: “cos’è quel che nascondi dietro la carne e la seta, forse la linea di una vita sbagliata” o la splendida poesia di Antonio Porta il loro mondo ci si rivela crudele talmente crudele da fare male, eppure da non poterne fare a meno. Perché il turbamento non è che atto conoscitivo in queste parole divenute suoni quasi onomatopeici. L’intimismo maestoso di 'Testamento' inocula emozioni che sfigurano l’anima. Si resta pervasi dai Pane, si insinuano con le loro melodie raffinate, le parole accurate. L’estetismo lirico del gruppo ci fa pensare a Platen quando dice che chi ha visto la bellezza con i propri occhi è già dato in preda alla morte, ecco speriamo di non morire presto, perché loro toccano la bellezza e ce la rivelano. Ci sembra di ascoltare echi del Banco del Mutuo Soccorso dei tempi di 'Non Mi Rompete' (1973), e le chitarre, specie in 'Frana Dolce' e 'Bolla Celeste', hanno un suono lontanamente spagnoleggiante che ci ricorda il grande Federico Moreno Torroba. Le cover scelte: 'Tu Non Dici Mai Niente' di Leo Ferrè e 'Vedrai Vedrai' di Luigi Tenco rispecchiano la cifra del gruppo, teso ad evocare e disvelare i fantasmi interiori e del tempo.

Mariagloria ‘lipsticktraces’ Fontana

 

SENTIRE ASCOLTARE
 
Recensendo il loro omonimo lavoro del 2003 ebbi il tipico soprassalto da ferita profonda. Non ci voleva molto a capire che quel disco autoprodotto possedeva ampiezza, intensità, urgenza e astrazione poetica non comuni. Dopo un lustro di esibizioni e conseguenti riconoscimenti in varie manifestazioni lungo lo stivale, i Pane esordiscono ufficialmente per ..la Lilium Produzioni.., e lo fanno con un lavoro che rilancia le potenzialità e le aspettative circa il quintetto romano.
Una collezioni di canzoni che da par loro ridefiniscono spazi, ambiti e ruolo del cantautorato progressivo italiano, caduto in disgrazia da un bel pezzo però mai veramente estinto anzi ben vivo anche nelle retrovie del cosiddetto indie (vedi le belle prove di Luxluna e Sursumcorda). Merito delle iperboli terrigne nei testi che Claudio Orlandi interpreta con enfasi ad altezza d'uomo, a stretto contatto con la contemporaneità (inquietudini, tremori, dilemmi, estasi, incubi) e lontanissimo dal fatale abbraccio della retorica, così come degli arrangiamenti che riarticolano folk, umori colti (romanticismi Debussy, irrequietezze Bartok...) e meditabondi scenari prog, suggerendo costantemente una complessità risolta a vantaggio di messe in scena calde ed essenziali, pur sempre "da camera" ma scevre di supponenza e alterità a gratis. 
Vengono in mente quindi Area e De André, certi Doors stregati dai più eterei Talk Talk, il Battiato delle gravità cameristiche in fregola CSI. Ma, al di là delle coordinate, quello che avvince è la potenza delle tracce, che si tratti di originali (il macabro languore di Testamento, la stringente tensione di Frana dolce, il dolce rappreso minimalismo di Giovanni Drogo, l'amarezza rabbiosa di una Abu Graib che stilla apocalisse come un retaggio Primo Levi) o di rivisitazioni (una Vedrai vedrai opportunamente ai minimi termini, la magnifica Tu non dici mai niente di Ferré). 
Tra i più bei titoli italiani dell'anno.

Stefano Solventi, Sentireascoltare, Dicembre 2008

 

MESCALINA

Ah, la canzone d’autore! C’è chi la usa come un peluche da accarezzare, da sfiorare, e chi invece come una terra da scavare, da arare.
Non ci sono dubbi da che parte stiano i Pane e, se il loro esordio autoprodotto di qualche anno fa era passato inosservato ai più, ora c’è questo debutto ufficiale a ribadire con fermezza quanto nei solchi di questo progetto non ci sia nulla di compiacente, di gradevole, di leggero così come comunemente inteso in molta della musica italiana in circolazione.
Qua, in una decina di tracce ed un paio di cover, l’ensemble romano miete poesia e teatro, in quella che più che una rappresentazione è un’incarnazione della realtà: grazie alla voce imponente di Claudio Orlandi e ad arrangiamenti acustici fatti di piano, flauto traverso, chitarra e batteria, i Pane coltivano una bellezza spietata, tanto grave da non poter essere contenuta nella solita forma canzone.
Ci sono De Andrè e Gaber, Ferrè e Tenco, i C.S.I. di “In quiete” e Giancarlo Onorato, quest’ultimo co-produttore, tutti rivissuti con uno sguardo feroce, che vi proietta in un luogo di detenzione in Iraq (“Abu Graib”) piuttosto che tra l’esistenzialismo interiore di un personaggio di Buzzati (“Giovanni Drogo”).
Molto viene attinto dal passato, quello della nostra tradizione che molti considerano “troppo impegnato”, e molto poggia sulla forza della parola, cantata, decantata, recitata, sussurrata, innalzata.
 Anche quando adottano il verso poetico, come nel caso di “Distanza amorosa” di Antonio Porta, i Pane non si perdono in idilli romantico-sentimentali, ma offrono una visione in cui realtà e mistero si penetrano arricchendosi a vicenda.
Le interpretazioni di Claudio Orlandi portano al limite i brani, trasfigurandoli come fossero eseguiti in una chiesa o in un ambiente sacro in cui vita e morte sono continuamente celebrati. Non a caso uno dei pezzi più “alti” è “Testamento” in cui il rimando all’aldilà prende forma proprio da ciò che resta dell’esperienza terrena.
“Tutta la dolcezza ai vermi” è un monito a quanto viene drammaticamente sprecato dagli uomini e allo stesso tempo un rendimento di grazie alla bellezza che continua a fiorire dalla terra. O meglio da quel terreno reso fertile dalla canzone d’autore.

Christian Verzeletti - Mescalina, Aprile 2008

 

L'isola che non c'era
 
Lavoro molto difficile questo Tutta la dolcezza ai vermi, debutto discografico del quintetto romano dei Pane. Difficile perché già dai primi brani lo si percepisce come intriso di una generale aria di cupezza, di un pessimismo che a tratti diviene disperazione, come in Abu Graib, a cui contribuiscono in primis la voce grave, acuta, disperata e rassegnata di Claudio Orlandi e gli arrangiamenti ricchi di passaggi lenti, scarni, come in Giovanni Drogo.
In generale questo lavoro pare adatto ad un adattamento teatrale, magari ad un’opera in stile beckettiano, poiché sicuramente non è album radiofonico o “facile da fischiettare”; una scelta, questa, che necessariamente colloca i Pane in una ben  precisa nicchia artistica e di pubblico, fatto al quale non è certamente estranea la scelta di proporre le cover di Lèo Ferrè, Tu non dici mai niente e di Luigi Tenco, Vedrai vedrai.

Del resto brani come Testamento e Gallina non presentano certo testi permeati di ottimismo o di allegria, fatto che non si verifica nemmeno nell’apparente ironia di Casa turchina: dunque un album al quale avvicinarsi con una certa disposizione d’animo, che mal si adatta ad un ascolto superficiale od episodico, men che meno, ovviamente, ad un viaggio automobilistico.
Si tratta di affrontare tematiche che vanno dal pessimismo alla distanza, come in Distanza amorosa, ed allora occorre consapevolezza e coscienza; coraggiosi, certamente, i Pane, a proporsi in questa forma, che si potrebbe definire “autunnale”, volendo darle una connotazione meteorologica. Musica da pioggia battente, insomma, da nebbia bassa, da cielo coperto. E per animi decisamente sensibili.

Andrea Romeo , L'isola che non c'era

 

MENTINFUGA
 
Pane. Tutta la profondità alla parola per un rock da camera
 
Un esordio formale? Difficile definirlo così perché da una parte i Pane nascono all’incirca nel 1992 e dall’altra la loro capacità espressiva ha un livello di maturità e profondità tale che è difficile collocarli tra gli esordienti.
Tutta la dolcezza ai vermi è la prima produzione ufficiale grazie a GianCarlo Onorato che ha avuto la direzione artistica e, forse, ha contribuito all’uscita dall’anonimato dove spesso finiscono i progetti artistici più densi e da un ascolto meno distratto.
Il gruppo romano è un’idea di Claudio Orlandi (voce) e Maurizio Polsinelli (piano) che per incontri successivi si completa per arrivare all’attuale formazione: dal 1994 Vito Andrea Arcomano (chitarra), dal 1998 Claudio Madaudo (flauto) e dal 2001 Ivan Macera (batteria).
Una costruzione musicale che ha come cardini "L ’energia espressiva ereditata da band come Doors e C.C.C.P. o la ricerca di un’espressività più rarefatta ed evocativa, infusa da autori come Debussy, Ravel, Bartok".
A proposito degli apparentamenti sonori Orlandi conferma quello con la “musica da camera” per l’intimità che i brani spesso presentano. Quando però deve indicare le influenze più prossime parla di un "certo rock più visionario" forse perché le "incursioni" nella tradizione autoriale hanno "l’audacia e la pretesa di forzarne i confini, per ridefinirli e allo stesso tempo confermarli".
Il suo nume tutelare per la parola, forse in alcuni momenti si potrebbe parlare di poesia, è il poeta Osip Mandel’stam.
I testi del brano Voronez sono tratti da un’opera del poeta. Voronez è il luogo dove si stabilì, insieme alla moglie, prima di essere nuovamente arrestato dalla polizia staliniana.
Il riferimento al pane è un richiamo a cose semplici e complesse allo stesso tempo e al "fare della musica un lievito per le parole" come ha avuto modo di precisare Orlandi in una sua intervista.
La dolcezza ai vermi è probabilmente un avvertimento perché il mondo dei nostri giorni sta sprecando le proprie energie, ma forse i piccoli invertebrati sono un segnale di rinascite come recita la citazione, in seconda di copertina, dal De Rerum Natura di Lucrezio "Dunque ogni cosa visibile non perisce del tutto, poiché una cosa dall’altra la natura ricrea".
Verzelletti si esprime con una buona dose di entusiasmo per questo disco che affonda il suo lavorio nella canzone d’autore più densa di significato. Un lavorio svolto in tale profondità che "grazie alla voce imponente di Claudio Orlandi e ad arrangiamenti acustici fatti di piano, flauto traverso, chitarra e batteria, i Pane coltivano una bellezza spietata, tanto grave da non poter essere contenuta nella solita forma canzone".
Mai si perdono in banalità e compiacimenti superflui anzi spesso la profondità giunge ad un "sguardo feroce" come può essere quello proposto in Abu Graib.
"Roba seria": sono le due parole che concludono la breve recensione di Brighenti. Un disco "rock da camera" e una band esigente che si rifà ai versi d’autore sia quando sono quelli di Orlandi stesso che quando si trova il Tenco di Vedrai Vedrai o Léo Ferré di Tu non dici mai niente.

Dodici brani composti, secondo Fabris, con sonorità lievi fatte di piano, chitarre acustiche, flauto traverso e arrangiamenti leggeri atti a sostenerci nelle profondità delle parole e della voce di Orlandi. Due difetti per un debutto che lascia il segno: la ripetitività della forma musicale in più di un’occasione e Orlandi che "si lascia spesso trascinare dai ricami della sua voce invece che comandarla". Non vi curate di noi ascoltate!

Ciro Ardiglione [www.mentinfuga.com]

 

FUORI DAL MUCCHIO

È sinistra e mistica, la musica dei Pane, al lavoro con un progetto che si è
sviluppato pazientemente, per cinque anni, concerto dopo concerto, arrivando oggi
all’esordio ufficiale con la Lilium e la produzione di Giancarlo Onorato. Una figura
quanto mai appropriata, la sua, per sottolineare i chiaroscuri di una proposta in bilico
fra cantautorato e art rock, fra impasti acustici e orizzonti più movimentati.
Anche il tono dei brani varia: può essere quasi esistenzialista, in “Tu non dici mai
niente”, ma vaga soprattutto sul filo del sogno, o dell’incubo: ossessioni che, fin dal
titolo, marchiano le scelte della band romana, innervano il canto e la scrittura di
Claudio Orlandi, esplodono nella chiusura di “Distanza amorosa” e trovano la via
della psichedelica in “Giovanni Drogo” o del crepuscolo nella evanescente “Aprile”. Il
progressive italiano si stempera in qualcos’altro, insomma, che al sottoscritto ha
fatto venire in mente il Lolli meno rassicurante (ammesso che ne esista uno
ottimista), o addirittura Piero Ciampi. La visionarietà, però, andrebbe centellinata
con maggior cura, e forse il disco avrebbe potuto essere ancora più interessante se
si fosse un po’ contenuto, nei testi e nella durata dei pezzi.
Sono peccati veniali, certo, così come la cover di Luigi Tenco, “Vedrai vedrai”, che è
corretta e nulla di più. C’è anche molta bellezza e poesia, in questo CD, soprattutto
nei suoi risvolti più soffusi. L’augurio è che aumenti, di canzone in canzone,
evitando sempre l’insidia dei vermi.

John Vignola – Fuori dal Mucchio, giugno 2008

 

SONIC BAND

Nel 2003 un anonimo disco autoprodotto si fece notare per la maturit à stilistica ed interpretativa, oltre al fatto che, evidentemente, i pane da roma avevano ed hanno tutt'ora qualcosa da dire. dopo un lustro che vede i nostri esibirsi, vincere e piazzarsi in diversi concorsi esce, finalmente, il loro esordio ufficiale con la produzione artistica di giancarlo onorato per lilium produzioni. un disco che non passa certamente inosservato, fuori dagli schemi odierni e con quel sapore antico, che riporta in mente le grandi band degli anni 60/70: pfm, banco del mutuo soccorso, area, senza assomigliare pesantemente a nessuno di questi, ma sviluppando la propria identità con forti pulsazioni cantautorali di scuola deandrè, gaber, guccini. c'è un piano, una chitarra, percussioni, un presente flauto traverso e la voce poderosa di claudio orlandi, ottimo oratore che modula la propria voce tra parti parlate, sussurrate e prepotenti, utilizzando la naturale potenza vocale che possiede. i pane concepiscono la musica come arte, come atto sacrale, come forma espressiva e poetica, con testi mai banali ed arrangiamneti di classe, rock acustico teso, ma dalle linee delicate. bellissime "abu graib”, "giovanni drogo" (personaggio di dino buzzati ne "il deserto dei tartari"), l'iniziale "frana dolce" e il toccante finale di "testamento". menzione a parte per le due cover presenti in "tutta la dolcezza ai vermi", la splendida rivisitazione di "tu non dici mai niente" di leo ferrè e "vedrai vedrai" di luigi tenco che sarebbe stata migliore, a mio avviso, senza quelle botte di volume vocale che ne smorzano un poco la poesia. una band "d'altri tempi" che ha saputo aspettare la giusta produzione per uscire con un bel disco, e che lancia un segnale già dal titolo, lasciando intendere che la bellezza della terra e delle cose "vere", l'uomo le ha lasciate ai vermi. una perla.

Fabio Igor Tosi [www.sonicbands.it]

 

BUONG.IT

Ricordo l’entusiasmo che mi coinvolse quando ascoltai il primo disco dei Pane, ricordo quante volte ascoltai quel disco e ricordo a quante persone lo consigliai. Questo nuovo album riconferma le potenzialità emotive e artistiche della band romana che va a ripescare dal bagaglio della tradizione italiana quell’incontro sensuale tra musica e teatro perfettamente diretto dalla voce potente e intima di Claudio Orlandi. Dodici gemme di assoluta classe ed eleganza che affidano all’acustica, al pianoforte e ai fiati l’onere di sostenere la base sonora sulla quale i testi vanno a intrecciarsi con uno stile vocale che rimanda ai vecchi cantautori della scuola genovese, generando una atmosfera avvolgente, calda, emozionante. Inoltre la direzione artistica affidata a Giancarlo Onorato (anch’egli stella del roster della Lilium Produzioni) spinge l’attenzione sul lato più intimo della composizione inanellando una serie di episodi autunnali capaci di scaldare il cuore con semplice ma elegante arte.

Andrea Buongiorno [www.buong.it]

 

MarteLive MAGAZINE

de Il 7

Da quando in Italia è finito il mercato nero e le ristrettezze del periodo bellico, non era mai successo che col pane ci facessero pure i dischi, ecco perché il vinile è finito in soffitta.
La gente riesce con un po’ di sforzo a non rimpiangere più quel plasticume forse proprio perché i repubblicani, forti della nuova Costituzione, dai tempi del boom non ci hanno fatto mancare il pane ed i giochi circensi, laddove per circensi si intendono quei caroselli che si consumano in parlamento quando crolla anticipatamente una legislatura e che ci fanno pensare: “E’ proprio vero, Tutta la dolcezza ai vermi!”.

Ma Pane, malgrado sia un progetto figlio dei tempi nuovi, vi consentirà non di affondare i denti in una tiepida focaccia di pasta bianca, ma di ascoltare la matura espressione di una musicalità segreta ma veritiera nel profondo, che vi indurrà a malinconie piuttosto gustose. Arpeggi rotondi dalla sonorità pensosa e partiture pianistiche trepidanti creano come l’attesa di fondo per un sasso nello stagno a cui solo può rispondere il volo d’un fringuello in un cielo di stoppa.
In Testamento gli accenti dolenti e dottamente sepolcrali lasciano affiorare la metafisica sotto forma di specchi e bandiere mentre le spoglie mortali d’un uomo impegnato vengono affidate a diversi spicchi dell’anima del mondo, operazione sostenuta da un flauto errabondo e sublime. L’incombente teatralità della voce sovrasta, senza prevaricarle, strutture armoniche incantate che le sicure percussioni certo non dissolvono. Interessante poi come si possa e si debba cercare di colmare una Distanza amorosa con il tubo dell’ acquedotto, ovvero con una costruzione destinata a diventare rudere. Termini Haus tradisce una sacrosanta ispirazione JethroTullistica che non si fa ammansire dal tepore mediterraneo, fatta salva l’eterea sospensione, seduta in mezzo al brano gravida di tonfi ansiosi, e dissipata poi dalla ripresa sfrenata della giga folk del clochard. Di passaggio, annoto che anche a chi scrive può venire da ridere per un Passo Lento, ma è uno sghignazzo amaro se la lentezza è la mia; quanto alle parole sconce forse perché superflue, è un cruccio che preferisco ignorare; temo infatti di dover dire: Tu non dici mai niente pensando a come quel niente distilli un tutto profondissimo, come finestre d’artista da cui escono il sole, il genio e la storia di fidanzati perduti, ahimè.
Anche la copertina vale a suggellare con pienezza simbolica il respiro ampio di un Progetto che insiste “di brutto” sul volume delle nostre vaghezze.