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Pane
- Tutta
la dolcezza ai vermi
Il ritorno della poesia nella musica italiana.
Fuori da ogni collocazione, da ogni possibile catalogazione,
l'esordio di Pane muove in un territorio
che non si dovrebbe neppure definire, se non facendo appello
alla più naturale predisposizione a considerare la
canzone come un avvenimento poetico e null'altro. La grave
malinconia come contraltare a un'intensa e persino tersa visione
di spazi interiori, porta alla emissione di quadri in forma
di canzone del quintetto romano, affidati solo a piano, voce,
chitarra, percussioni, flauto traverso, rinnovando di brano
in brano la tensione implosa, vagando tra la delicata sospesa
ballata, fatta di un niente, di grappoli di note di pianoforte
contrapposti ai profondi affanni di un cantato pregno di schietta
ispirazione (Aprile, Voronež,
Casa Turchina, Bolla Celeste)
per la vocalità totale di Claudio Orlandi e i suoi
potenti cambi di registro, passando per i dolorosi scenari
di Abu Graib, dove testo e musica si immergono
nella melmosa laguna della pietà e della ferocia, alle
distillazioni del tempo che fanno rivivere il minimalismo
d'anima di Buzzati in "Giovanni Drogo",
per giungere alle pulsazioni di uno strepitoso testo del compianto
Antonio Porta, "Distanza amorosa"
cadenzato e inanellato con la rara densità di una danza
ancestrale in cui il sesso diventa spiraglio di anima e di
mondo, di vita e di morte. E il funerale Testamento,
virtuale e sereno in un impulso liberato, posto a
metà dell’opera sottolinea con meravigliante
e bucolica freschezza le capacità immaginifiche di
Pane.
Un disco senza mezzi termini, emesso con naturale veemenza
e con altrettanta grazia sistemato su un sudario erboso. Un
inno impercettibile ma a tratti fragoroso all'umanità
colta nel suo più profondo anelito, mentre si rotola
su se stessa, nella miseria e nella bellezza.
Le versioni di "Tu non dici mai niente" di Léo
Ferré e di "Vedrai vedrai" di Luigi
Tenco, non possono non recare brividi, a conferma
della qualità interpretativa del gruppo romano.
Un disco suonato in assoluta libertà,
senza le regole consuete, catturato in presa diretta rigorosa
da Attila Faravelli, come si deve quando
non si possono ammettere artifici, mantenuto in equilibrio
e diretto da un gianCarlo Onorato qui più
che mai regista più che produttore, attento unicamente
a rendere l'incanto per quello che è, cercando un equilibrio,
perché nulla vada sprecato, nulla vada perduto, e la
poetica di una creatura in stato di grazia coli liberamente
fino a chi sia in grado di assorbirla.
© (P) Lilium Produzioni 2008
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