..Diceva Ivan Della Mea che quando
i cantanti di canzoni popolari si mettono a scrivere canzoni
fanno fiasco. E ha ragione. Chiunque cambia deve ricominciare
da capo umilmente. Spesso c’è lo sguardo irritato
di chi preferisce il prima. E' bello apostrofare il mondo con
un canto “oggettivo” se non addirittura “collettivo”,
ben protetto dai documenti originali. Non per questo inventare
è tradire le consegne, affogare nella vanità.
Il quesito tradizione-innovazione si è posto da subito,
e si esprimeva come una riluttanza ad intervenire anche marginalmente
a modificare la forma dei canti tradizionali. Ma anche senza
volere, anche nella sola imitazione c’è una sorta
di telefono senza fili, un rumore di fondo che cambia, e poi
nuove utilizzazioni ed esiti. Inoltre, storie nuove accadono
nella realtà che si modifica, e ciò senza provocare
alcun passo indietro.
Gli intoccabili documenti sono canzoni vive, casomai è
proprio la liturgia che mummifica.
Alla Magliana i compagni in lotta improvvisavano strofe: descrittive,
filosofiche, di incitamento. Queste strofe prima non c’erano,
ora ci sono. Al Campidoglio la tarantella dei baraccati incitava
al ballo per vincere il freddo, per l’autodeterminazione,
per chiedere con ironia la grazia di un alloggio. In un’altra
occasione arriva un compagno di borgata e racconta la storia
di un incidente stradale ove ha trovato la morte un amico. E’
una storia marginale di una strada dove non c’è
ancora il cartello di fermata del bus, in quel particolare luogo
della città, dove su strade extra urbane si formano agglomerati
abusivi. Scritta la canzone ti fermi e ci pensi, sono canzoni
che nessuno conoscerà, ma servono a me. Perché
non continuare a scriverle? Perché non farle interagire?
Risponde Kounellis per me: ”Ho la necessità di
avvicinare il segreto dramma originario dal quale si è
dipanata la mia vita avventurosa”. In quanto a me direi
piuttosto “vita inquieta”, ma con il dramma originario
sono d’accordo. Sono nato
Roma nel 47 e ho cominciato a strimpellare la chitarra quasi
subito perché mi meravigliò il suono di una
corda pizzicata per curiosità, stando in piedi su una
sedia poggiata su un tavolo, col braccio alzato tanto da sfiorare
la chitarra che il cugino spagnolo aveva lasciato sopra l'armadio.
L'eco di quel suono non s'è spento ancora. Amavo le
belle canzoni, pensiero e forma di altre e lontane realtà.
Arrivò la beat generation, Bob Dylan, i Beatles, gli
Stones, e così via. Si usava tra ragazzi il ricalco
del pop. Si faceva su e giù con la puntina sul vinile,
per carpire un passaggio o un accordo. Poi lo si confrontava
con i numerosi chitarristi, che allora costellavano la cerchia
degli gli amici, dei compagni di scuola, dei parenti. E così,
con la costruzione meticolosa di ogni dettaglio, un gruppo
di amici a cercare in ogni brano un piccolo mondo sonoro,
così è cresciuto il mio amore per il pop.
Ero uno studente geometra e facevo chilometri in autobus con
chitarra e amplificatore, andavo dall'altra parte della città
a chiudermi in una cantina a suonare.
Più grandicello eccomi sferragliare
interminabili cantate antologiche. Sono diplomato, anzi ho
faticosamente sbiennato a ingegneria e mi appresto a traslocare
ad architettura, meta ambita ma sinora vietata perche non
vengo dal liceo. Appena sbarcato a Valle Giulia incontro il
movimento, le manifestazioni, le lotte, ricordo un gelido
dodici dicembre a Milano un anno dopo a manifestare tra due
ali di polizia, e poi e poi. Conobbi un certo Carlo Siliotto,
a una festa suonai “Salty dog” dei Procol Harum
e Carlo mi chiese se pensavo di lavorare suonando, dissi di
si, “Un gruppo di musica popolare”, disse, e “ok”,
risposi, e tradii la facoltà tanto agognata, ma era
un reato che ci vedeva complici, ed in cuor nostro avremmo
detto allora che era solo una pausa. Intanto si poteva togliersi
da casa dei genitori. Mi portò da Alessandro Portelli,
e da Sandro ascoltammo una selezione di canti, accompagnati
da strumenti vari, di canzoni contadine del Lazio. C’era
rappresentata anche la canzone romana ma nulla a che vedere
con il popolo immaginario che si magnificava nelle canzoni
di Gabriella Ferri, unica epigona del genere che avesse colto
il senso, meglio comunque del reuccio. Manca del tutto l’odore
di dolcificante. Era anche canzone politica, era “comunisti
della capitale”, o erano gli stornelli, i più
sarcastici e belli che avessi mai sentito. Poi le parodie.
Ormai ero nel sacro fuoco, e diverse volte, in seguito, si
andò insieme a registrare .
Si apre così, davanti al giovane
studente di architettura melomane e incantato, il mondo pastorale
e contadino.
Quella musica mette in risonanza un mondo sonoro che lui sembra
conoscere già, che sente da qualche parte dentro, oltre
che davanti ai suoi occhi. Il giovane, aspirante poeta, identifica
questo mondo come la "verità". Finalmente
le radici sono li, apparentemente inesauribili e gli chiedono
di ascoltare.
Portelli trova il nome “Canzoniere
del Lazio”: alcune regioni hanno infatti intitolato
gruppi musicali di riproposta delle canzoni di tradizione
orale. C’è il Canzoniere Veneto, ecc. e c’è
il Canzoniere Italiano, che raccoglie l’esperienza di
quelli che prima di noi si sono avventurati. Siliotto teorizza
la riappropriazione della cultura da parte del tessuto sociale
che storicamente l’ha prodotta. E' un'idea grandiosa.
Nel 1973 incidiamo a Milano una piccola
antologia di brani popolari dal titolo: "Quando nascesti
tune” per le ed. Del Gallo.
Importante sintomo della nuova direzione
urbana ed elettrica della musica popolare italiana è
lo spettacolo "Fare Musica", con la partecipazione
di Giovanna Marini con la ballata "L'Eroe", e di
altri autori come Paolo Pietrangeli e Gianni Nebbiosi, mentre
il Canzoniere del Lazio propone il repertorio popolare e condivide
con il gruppo rock "Albero Motore" la funzione di
supporto orchestrale. Da tale esperienza resta il disco di
Gianni Nebbiosi per Ricordi e il disco di Giovanna Marini
"L'Eroe" per le Edizioni del Gallo.
Nel 1974 il CdL s'ingrandisce, per sottolineare
l'inurbamento della cultura popolare. Agli strumenti tradizionali
quali chitarra, organetto, violino, percussioni, si aggiungono
quelli propri della cultura urbana: sassofoni, batteria, basso…
Si scelgono alcune strofe a carattere rituale, canzoni pastorali,
balli, tentando un arrangiamento che trascini la musica di
tradizione orale in un suono pop e rock. Dal '74 al '77 con
il Canzoniere del Lazio Piero Brega incide due dischi: “Lassa
sta’ la me’ creatura” e “Spirito bono”
(Intingo Records, distr. Ricordi).
La vocalità ed i modi compositivi
popolari divengono oggetto della stessa analisi del pop inglese.
Ma se prima era un variopinto rompicapo collettivo, ora è
un viaggio nel tempo, nella storia, nella politica. Il contesto
di ogni brano, il significato del testo in senso stretto,
il legame con la situazione rituale e reale in cui il brano
viene eseguito ed utilizzato offrono un punto di osservazione
al giovane poeta.
Così, ad esempio ho utilizzato l’ottava epica,
un modello di metrica del racconto tramandata dai poeti a
braccio. Ho praticato l’endecasillabo, la chiave di
volta della poesia italiana da Dante a Pasolini, l'ho fatto
incautamente, da giovane, in un percorso del tutto empirico
e improvvisato.
Dal programma “Un certo discorso”
di radio tre si accorgono di me e mi danno fiducia e coraggio:
servono canzoni, e una addirittura dall’oggi al domani.
Non avevo sino ad ora scritto su commissione, sto tornando
a casa a piedi, e penso a me stesso nella tranquilla strada
di casa, la mia città diventerà, per tutto il
silenzio seguente, il libro che custodisce il mio mondo segreto.
Nel '78 esce il disco “Malvasia”
(Fonit Cetra) con il trio “Piazza Giannattasio Brega”,
e Nel '79, “Carnascialia” (Polygram) con Pasquale
Minieri e Giorgio Vivaldi, nel quali compare "Canzone
numero uno", una tarantella che riporta alla vita e alla
speranza un uomo stanco e sfiduciato, quale ero in quel momento.
Comincio a fare la fila alla Fonit a
Roma, porto un nastro alla Polygram a Milano per cercare di
pubblicare un disco di canzoni; ma non va. C'è un bell'articolo
di Franco Fabbri degli Stormy six, su Diario dell'11 giugno
04. Si parla del concerto per Demetrio Stratos del maggio
‘79 all'arena civica di Milano. Franco Fabbri ha colto
in pieno la sensazione di fine di un periodo. "Si annuncia,
insieme al grave lutto per Demetrio, il funerale del movimento
politico e musicale degli anni settanta".
Nell’81 ancora con Giovanna Marini
canto nel ruolo del protagonista dell'opera "Il regalo
dell'imperatore" facciamo, con una banda ed un coro,
un lungo tour in Francia concluso con quaranta repliche a
Parigi al teatro "Buffe du Nord" di Peter Brook.
Da questo lavoro è tratto il disco omonimo edito da
"Chant du monde".
Poi il teatro di ispirazione popolare di Quartucci, La Zattera
di Babele, dove si richiede repertorio popolare, a volte canto
senza accompagnamento musicale, a voce nuda, in certi templi
tedeschi della musica colta.
Ho incontrato intellettuali e artisti, Michele Straniero,
Jannis Kounellis, Carlo Quartucci, Renato Mambor, Roberto
Clerici, lo stesso Demetrio Stratos; tutti mi spingono a continuare.
Ma si diradano le occasioni per lavorare con le canzoni. Maledetta
la chitarra e tutto il resto. Non dovevo laurearmi in architettura?
Un tavolo da disegno mi consolerà? Forse si. C’è
uno studio di architettura che mi assume a ore. Sorge la moschea
di Roma. E io disegno e disegno, e intanto, la sera scrivo
canzoni sulla città dentro di me.
Nel 1991 riprendo a suonare con l'amico
musicista Adriano Martire proponendo uno spettacolino di canzoni
per un duo di chitarre.
Nel 1994 c'è un occasionale ritorno alle canzoni con
la proposta di Carnascialia ed Alma Megretta insieme in "Contagio",
poi lentamente qualcosa si muove. Nel '96 facciamo un trio
di chitarre acustiche e voci: Piero Brega con Adriano Martire
e Luca Balbo, poi fuggito e sostituito da Maurizio Musi; il
lavoro prosegue e noi stiamo suonando una sera della primavera
del ‘98 a Santa Marinella per l’inaugurazione
di un bar. Siamo per strada, non fa caldo e c’è
qualche affezionato fan e/o passante, che ascoltano.
C’è un tipo, un certo Peter Quell, che vuole
inventarsi produttore discografico e ci propone di registrare
un disco. Andiamo alla sala O.A.S.I. di Paolo Modugno, un
musicista votato a registrare. Si, ci conosciamo da vecchia
data. Iniziamo. Cosa fare? Con Adriano Martire cerchiamo di
pianificare il lavoro. Come ai vecchi tempi, mettiamo un clic
e facciamo due piste oneste di voce e chitarra e poi le mandiamo
in cuffia, quindi cominciamo con le basi ritmiche. Ci vuole
un contrabbasso. Siamo lì a ragionare e negli intervalli
salta fuori in pochi giorni “Nel giardino delle persiche“.
Adriano Martire scandisce l’ottava “Quando so’
morto copreme de pizze” in cinque quarti. L’antica
ottava rima si colloca, perfettamente a suo agio, nel tempo
dispari. Misteri dell’antico endecasillabo. Bisognerà
trovargli un posto nel disco. Ma non era il disco di un cantautore?
Si, ma sempre malato di musica popolare. Il primo arrangiamento,
un ballo sardo con le parole di “ Su patriota sardo
a sos feudatarios” trova subito posto nel doppio cd
del Bosio “Vent’anni e più…”.
il Circolo Gianni Bosio mi riapre le braccia e Portelli è
sempre li sorridente che dice: sei er meio. Che vuoi di più.
Mi rivolgo ai musicisti che conosco,
ci vorrebbe la voce di un sax, andiamo a parlare con Checco
Marini, “Ma chi scrive gli arrangiamenti?”, chiede.
“Non lo so, non pensavo ci fosse bisogno, puoi suonare
quello che vuoi, sentirai, il pezzo è semplice”.
“No, non si fa così, dovete trovare qualcuno”.
Andiamo da Enzo Pietropaoli che ho conosciuto anni prima da
Roberto Gatto. Lo ricordavo bravo e serio. E non ho sbagliato.
Intanto io Peter andavamo un po’ brancolando con la
Rita Marcotulli che intanto lavorava su “Sali sole”
e “Tuscolana”.
Entriamo in sala ed Enzo si fa in quattro: scrive le parti,
dirige, arriva con elaborazioni che ha fabbricato a casa per
farci perdere meno tempo. Il tempo è denaro e maggiormente
in sala di registrazione. Cerco di fare del mio meglio a cantare
e intanto scrivo “San Basilio”, un aneddoto della
ipotetica vita del santo vescovo di Cesarea nella Palertina
romanizzata del terzo secolo tramandato dalla “leggenda
dorata” di Iacopo da Varagine.
Mi sono sempre chiesto la storia del nome del quartiere. Del
Re cantava dello sgombero delle case occupate a San Basilio
e gridava il suo nome in un modo troppo evocativo perché
io non mi incuriosissi. L’argomento è il perdono,
o meglio la storia di una donna peccatrice.
Ma il tempo passa, il disco non finisce
mai, non si vende, nessuno lo vuole. Cominciamo i mixaggi,
i brani sono splendidi, tutti hanno fatto un lavoro ottimo.
Intantp ho scritto altre canzoni, “La signorina”,
“Autoritratto”,e altre; c'è già
il materiale di un altro cd, ma c’è qualcosa
di incompiuto che mi pesa nella schiena. Somatizzo le difficoltà
dei miei due lavori, Sono a letto immobilizzato con un‘ernia
del disco. Mi guardo intorno, manca ancora qualcosa, le mie
canzoni hanno avuto un’ottima piccola orchestra che
le ha valorizzate a dovere. Mi sembra l’ora di ritornare
al piccolo, al non arrangiamento, a suonare dal vivo in sala,
con pochi strumenti. Un uomo maturo, che cammina con difficoltà
nella piccola oasi dove un amico dietro al mixer l’ha
visto partire tanti anni fa. E lì, col contrabbasso
di Pietropaoli e la chitarra di Michele Ascolese ho registrato
ancora una volta in presa diretta le due canzoni simbolo per
me di ogni caduta e risurrezione: “Tuscolana”
e “Sali sole”. Ora il lavoro è veramente
al termine. Al centro di una sapiente architettura orchestrale
c’è una nuda polpa emotiva, che lascia avvicinare
di più l’ascoltatore. Il disco c’è,
ecco che lo presento:
COME LI VIANDANTI: disco di canzoni di Piero Brega, Prodotto
dal Circolo Gianni Bosio e dal Manifesto, produzione artistica
di Peter Quell, arrangiamenti di Enzo Pietropaoli e collaborazione
di insigni musicisti:
Enzo Pietropaoli (contrabbasso), Danilo Rea (pianoforte),
Michele Ascolese (chitarra), Antonello Salis (fisarmonica),
Paolo Fresu (tromba), Ambrogio Sparagna (organetto), Roberto
Gatto (batteria), Nando Citarella (tammorra), Marcello Sirignano
(violino), Gabriele Coen (clarinetto), Antonello Ricci (zampogna
calabrese e canto), Elio Rivagli (batteria), Fulvio Maras
e Piero Fortezza (precussioni) e altri ancora. Ne è
risultato un disco ricchissimo e imprevedibile in cui la mia
voce è, speriamo, all’altezza. Canzoni con i
piedi sulla terra della tradizione e la testa nel cielo iridescente
del cantautore.
Fonte: CIRCOLO
GIANNI BOSIO [www.circologiannibosio.it]
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